Un allegro videogioco sulla morte e l’elaborazione del lutto. È stato questo il primo slogan che mi è venuto in mente pensando a Spiritfarer. Certo, sembra contraddittorio. Chi gioca ai videogiochi indie sa bene che la loro sovrastruttura si basa quasi sempre sullo sfruttamento delle contraddizioni: ridicolizza il tragico e rende gravoso ciò che dal senso comune è considerato normale, leggero. Questo processo ha luogo anche in altri prodotti di intrattenimento, sopratutto nei film (un esempio famoso: The Truman Show). Normalmente, ciò viene fatto per far divertire lo spettatore, proprio nel senso etimologico del termine (dal latino divèrtere, volgere altrove), costringendolo a cambiare sguardo per vedere le cose da un altro punto di vista. Questo viene fatto, con estrema delicatezza, anche in questa perla firmata Thunder Lotus.
Spiritfarer è un videogioco gestionale con alcuni elementi di platform, in cui la storia, anzi, le storie, sono la parte centrale. Il giocatore interpreta Stella, una giovane ragazza accompagnata da un gatto, Daffodil, che può essere controllato da un altro utente se si gioca in modalità cooperativa. All’inizio del gioco, il nocchiere Caronte le tramanda l’arduo compito di traghettare gli spiriti dei morti nella loro ultima traversata. Un momento: ma la fine non era già arrivata?
Questa è la prima cosa che imparerete da Spiritfarer: la fine è solo l’inizio.
Ci troviamo nel regno dei morti. L’Ade, nella sua concezione più diffusa, è un luogo che evoca dolore, tristezza e visioni lugubri. La morte viene percepita negativamente anche nel mondo dei videogiochi: trovarsi davanti al famoso Game Over non è mai piacevole per nessuno (forse perché espellendoci dal gioco ci riporta alla vita reale? Chissà…). Ma l’oltretomba di Spiritfarer è diverso: è luminoso. Ci sono calma, quiete, spazio. Finalmente, dopo una vita vissuta di corsa, possiamo fermarci a riposare in pace! Siamo morti, quindi abbiamo tempo di goderci la vita. Davanti a noi si trova un oceano sterminato, costellato di isole colorate. In questo aldilà dimorano armonia e bellezza: in ogni scena sembra di trovarsi in un dipinto di Hiroshi Yoshida, il pittore giapponese al quale si sono ispirati i creatori del gioco. Tutto, dai colori alle musiche, concorre a trasmettere un profondo senso di pace e accettazione, che non potrebbero essere più lontani dall’aere perso dantesco.
C’è solitudine, rappresentata anche dal paesaggio insulare. È una solitudine introspettiva e contemplativa, del tutto diversa da quella di Omori. Qui non c’è sofferenza. Spesso incontriamo la malinconia e tristezza, alle quali però segue sempre un senso di profonda pace. Anche il corpo non c’è più e con lui gli aspetti terreni, come la sessualità e la malattia. Permane lo spirito, il totem, che ha preso la forma di un animale rappresentativo dell’umano che era in vita. L’unica ad avere forma umana è la protagonista, Stella, della quale all’inizio non si sa nulla. Il suo passato si scoprirà poco a poco, dai monologhi dei personaggi che incontreremo e dai suoi sogni. Il gioco ci ricorda continuamente che non sappiamo chi siamo finché non ci vediamo riflessi negli occhi degli altri.
Ma questi riflessi non combaciano mai perfettamente; sono luminosi e irregolari come frammenti di uno specchio rotto. Degli altri e del loro passato, invece, sappiamo un sacco. Abbiamo l’illusione di capirli facilmente, di vederi per quello che sono nella loro totalità. I personaggi che traghettiamo si cimentano in lunghi monologhi in cui parlano del lavoro che facevano, delle loro relazioni, dei rimpianti, dei loro sogni. E Stella cosa fa in tutto questo? Ascolta. Un ascolto attivo, che si manifesta con lampanti espressioni facciali. Li nutre, non solo con il cibo: può abbracciarli per risollevargli l’umore o iniziare un viaggio solo per soddisfare una loro richiesta. E le richieste sono davvero molteplici: c’è chi ha bisogno di affrontare i demoni del suo passato, chi vorrebbe un’ultima cena con gli amici, chi ha sempre sognato di diventare un attore e chi, semplicemente, vuole essere lasciato da solo per un pò. Infine, quando si sentono pronti per andarsene, ma non prima di averli ascoltati un’ultima volta, Stella li accompagna all’Eterna Porta. Praticamente, alla fine di questo gioco sarete diventati dei terapeuti - e dovrete andare in terapia.
Come avrete intuito, Spiritfarer mette le relazioni al centro dell’esperienza umana e, nel fare questo, ci pone davanti alla relazione più difficile di tutte: quella con noi stessi. L’autoconoscenza è così ardua rispetto alle altre perché ci costringe ad avere a che fare con quelli che sono i nostri temi fondamentali. Inevitabilmente, i vostri temi fondamentali spunteranno fuori mentre giocate, perché le storie di alcuni personaggi o determinati elementi di queste vi colpiranno più di altri. Il motivo per cui ciò accade è che qualcosa di voi stessi ha “risuonato” con il vissuto dell’Altro, poco importa se fittizio e virtuale.
Anche se Spiritfarer ci insegna che nella morte c’è sempre la vita, non possiamo negare che siano ben rappresentati il tema del lutto e della separazione. Ogni volta che un personaggio se ne va attraversando “L’Eterna Porta” lascia un vuoto: fisico, perché non si aggirerà più sulla nostra barca; ed emotivo, perché sarà un posto vacante nel cuore degli altri passeggeri. Accompagnare i personaggi nella loro ultima traversata non è un’operazione così semplice e spesso mi sono sorpresa nell’accorgermi che non avrei voluto lasciarne andare alcuni ai quali mi ero affezionata. Nei videogiochi siamo spesso abituati a collezionare i personaggi che incontriamo; giocare ad un gioco in cui lo scopo è perderli, inevitabilmente genera in noi sensazioni a cui non siamo abituati. Eppure, la perdita è una parte inevitabile della vita e in particolare dei rapporti umani; un concetto diametralmente opposto al collezionismo, che può invece essere diretto verso gli oggetti. Sappiamo che chi cerca di collezionare le relazioni umane e le considera in un’ottica strumentale non fa davvero esperienza di queste e alla fine “Perde il senso”, in generale, della sua esistenza.
Non ho lasciato andare facilmente Stanley |
Barrie Simmons è stato un famoso terapeuta della psicoterapia della Gestalt ad indirizzo fenomenologico-esistenziale (oltre che l’analista di mia madre). Come tanti grandi di questa scuola ha scritto pochissimo. Al tempo prevaleva l’idea, oggi fortunatamente abbandonata, che scrivere distogliesse dall’esperienza reale e dal contatto con il proprio sentire. Per fortuna, oltre alla tradizione orale e spirituale che circonda questa figura mitologica, altri hanno riportato alcuni suoi discorsi. In uno dei suoi rari testi (che riporto in bibliografia e vi invito a leggere) parla della difficoltà di separarsi e dei vari modi che le persone mettono in atto per difendersi dalla separazione nel corso della vita. Infine fa un interessante (seppur da lui giudicato non originale) parallelismo che riporto qui e che non commenterò, perché sento che qualsiasi commento risulterebbe superfluo:
Sono molte le metafore cui stasera potrei ricorrere. La mia esperienza mi fa insistere su una che certo non è originale: la psicoterapia è una specie di ricapitolazione della nascita. Forme di nascita caratterizzano forse tutta la nostra vita. Ogni volta che mi trovo in un ambiente protettivo, in una situazione di pieno contenimento, sta avvicinandosi il momento di uscirne, di differenziarmi, di rischiare le incertezze dell'ignoto invece di rimanere fermo dentro quest'utero e morirvi. Questo continuo nascere e rinascere è, a mio avviso, insito nel nostro percorso, dalla morte dell'embrione alla nascita di quello che verrà dopo la morte. Questo percorso altro non è che la crescita, o il lento acquisto, di un'anima. Più specificamente, la situazione terapeutica è la ricapitolazione della differenziazione, della separazione dalla madre, dal contenitore, perché ogni seduta è un'osmosi, uno sprofondarsi in una situazione protetta e finisce, ogni volta, con il doversi alzare e andar via. È un addestramento all'ansia di separazione, a lungo andare è un addestramento a stare sui propri piedi. L'intero percorso longitudinale della situazione terapeutica ha questa caratteristica: il paziente guarisce dall'essere un paziente, guarisce dall'essere un essere dipendente, guarisce dall'essere un bambino non responsabile di sé. Chi più chi meno, si assume la responsabilità della propria esistenza. Uscito dall'utero il paziente non ha più tra sé e il mondo un diaframma, ma è finalmente abilitato a entrare, se non sempre almeno spesso, in contatto con la realtà.
(…) Un bel giorno il paziente decide di vivere. Cioè di correre dei rischi. A questo punto voglio precisare una cosa: quando il paziente smette di essere non ancora nato o già morto, torna semplicemente dov'era, riprende la vita da dove l'aveva lasciata. Qualcuno lo trova insopportabile, altri hanno accumulato negli anni capacità, conoscenza, esperienza che li rendono in grado di tollerare il dolore. Ma in ogni caso si riprende a vivere lì dove si era smesso, si ritrovano problemi e frustrazioni. Una persona viva è una persona con grossi e dolorosi conflitti ed è in contatto con questi conflitti; è una persona con insopportabili frustrazioni ed è in contatto con queste frustrazioni. È una persona in qualche misura disperata, però consapevole di questa disperazione; che ha preso la decisione di non suicidarsi non solo a livello di testa, di coscienza, ma profondamente, con tutto il suo corpo. Una persona che ha smesso, per la prima volta, da quando è su questo pianeta, di migliorarsi, cambiarsi, falsarsi, adeguarsi all'Io-ideale o al modello culturale. Per la prima volta si è arresa alla realtà ed è diventata quello che è.
Non sappiamo davvero cosa ci sia nell’aldilà. A me piace credere che ci sia un mondo molto simile a quello di Spiritfarer; un luogo in cui avremo il tempo di accomiatarci dalla vita con i nostri tempi, tirare le somme, raccontare la nostra storia agli altri e salutarli. Una specie di vecchiaia idilliaca. Ma la verità è che l’aldilà è sconosciuto e questo spazio-tempo riservato non ci è dovuto. La mancanza di questa promessa, anche se da un lato è angosciante, dall’altro ci fa riflettere sul senso della vita; perché abbiamo bisogno di pensare che esista uno spazio simile? La risposta che mi sono data dopo 64 ore di Spiritfarer è che abbiamo bisogno di tempo per fare ciò per cui siamo nati, quello che davvero vogliamo, lasciandoci indietro meno rimpianti possibile. Forse esagero scrivendo che giocare a questo gioco vi farà entusiasmare nuovamente della vita. Ma non esagero scrivendo che giocarci mi ha fatto riflettere su tutto ciò e su molto altro che devo ancora digerire.
Per questo all’inizio ho scritto ironicamente che alla fine di questo gioco dovrete andare in terapia. Vi aspettavate così tanta vita in un gioco sulla morte? D’ora in poi aspettatevelo. Perché, come diceva Barrie, vivere è separarsi.
Bibliografia
https://www.treccani.it/vocabolario/divertire/
http://www.psychomedia.it/cpat/articoli/46-simmons.htm
https://igfworld.wordpress.com/2010/05/07/vivere-e-separarsi-5/
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