Maledico spesso la funzione “Ricordi” di Facebook: sedicenti amici che ormai non vedo più, foto di viaggi che mi provocano nostalgia, traumi passati che riemergono, abissi di vergogna per i post che scrivevo nel 2009. Ma oggi, sorprendentemente, la funzione “Ricordi” mi è venuta incontro.
L’archivio delle storie mi ha ricordato, infatti, che è trascorso un anno esatto da quando ho giocato ad OMORI. Qualche giorno fa mi è tornato in mente questo titolo incredibile, da cosa nasce cosa e alla fine questa idea ho deciso di aprire un blog. Mi sono lasciata prendere la mano.
Ma non è stata una decisione avventata. Posso concretamente distinguere un prima e un dopo OMORI; è stato il gioco che per primo ho considerato terapeutico in sé e di cui ho voluto scrivere fin dalla mia prima game session. Sarà il degno capostipite di questa serie di analisi che metteranno in relazione videogiochi e psicologia.
Ho scritto analisi, non recensioni. Qui non leggerete articoli su giocabilità, grafica e altri aspetti tecnici dei videogiochi. Le mie impietose disamine saranno focalizzate sugli aspetti emotivi, terapeutici e psicologici di storia e personaggi, che userò come spunti per fare delle riflessioni (leggi: voli pindarici), cercando, nel frattempo, di non fare troppi spoiler. Cercando. Tutto chiaro? Ok, possiamo cominciare.

OMORI, scritto proprio così, in caps-lock, URLATO, è un videogioco di ruolo, genere horror psicologico e grafica retrò, sviluppato dall’artista che va sotto lo pseudonimo di OMOCAT e co-pubblicato da Playism. Il gioco deriva da una serie di webcomics scritti dalla stessa artista su Tumblr e ha impiegato ben sei anni e mezzo per venire alla luce. Anche se OMORI non è stato tradotto ufficialmente in italiano, qui (
https://omori-traduzione.it/) dovreste trovare una traduzione amatoriale (non so se sia affidabile, perché io l’ho giocato in inglese). Lo trovate su Steam.
Il gioco racconta due storie che riguardano la stessa persona ma appartengono a due mondi e tempi completamente diversi. Uno è il mondo interno e l’altro il mondo esterno. Nel primo, onirico, magico, fiabesco, le emozioni sono armi con cui lottare e vediamo i personaggi trasfigurati attraverso i ricordi e l’inconscio del protagonista. Questo universo vi riporterà inizialmente alla vostra infanzia, quella vera, e per i nati negli anni ’90 lo farà anche il gameplay, che strizza l’occhio ai vecchi giochi del game-boy (Pokémon, guardo a te). Ma non fatevi ingannare dalla sua atmosfera infantile; prima di rendervene conto, questo universo inizierà a ricordarvi la vostra età adulta anche troppo da vicino. In pratica, crescerete insieme al gioco. È da considerare che, anche quando parla dell’infanzia, OMORI non è vicino ai suoi aspetti buonisti ed edulcorati (che, comunque, i bambini snobbano). Se non vi ricordate quanto è stato complicato crescere, questo gioco è qui per ricordarvelo. Ad aspetti positivi, come il senso di avventura, la forza dell’amicizia e del gruppo, la creatività, il pensiero magico, l’empatia, la curiosità, l’autorealizzazione e la scoperta di sé stessi, si affiancano aspetti più difficili del percorso di crescita, come la paura del buio, l’ansia, la depressione, il superamento del lutto, il timore di diventare adulti e rimanere incastrati in un ruolo, l’angoscia dell’abbandono, il conformismo, il trauma, la violenza, il potere, il narcisismo, l’ossessione per la perfezione e l’armonia a tutti i costi.

Sembrano tanti temi? Ebbene, ci sono tutti, uno per uno, e vengono trattati con il rispetto, la grazia e l’attenzione che hanno tanti prodotti culturali giapponesi. Sono chiaramente di derivazione nipponica anche il mito dell’infanzia perduta e la sua idealizzazione. In Giappone, dal momento dell’inserimento del sistema scolastico, vengono richiesti ai bambini responsabilità e impegno sempre maggiori. Dalle medie in poi, a causa delle kyōiku mama (le cosidette “madri istruzione” che sacrificano il benessere dei propri figli sull’altare dello studio) i momenti di libertà dei bambini giapponesi sono estremamente limitati. Molti studenti delle scuole superiori, anche con voti eccellenti, la sera frequentano lezioni supplementari per cercare di ottenere alti punteggi scolastici e poter entrare in una buona università; così, nel periodo dei test d’ingresso si registra ogni anno una catastrofica impennata dei suicidi. E una volta che i giovani approdano nel mondo del lavoro sappiamo che le cose non vanno meglio: lo stress e i problemi sul posto di lavoro sono la terza causa maggiore di suicidio in Giappone. Visti questi dati è chiaro come la mitizzazione dell’infanzia sia qualcosa al quale un giapponese può essere facilmente sensibile. Non per niente, in moltissimi manga e anime accade spesso che l’interesse romantico principale del/della protagonista sia l’amichetta/o di infanzia mai dimenticato/a. In OMORI è presente anche questo aspetto.

Voglio sottolineare che con questo non intendo dire che l’estrema autonomia e responsabilizzazione date ai bambini giapponesi non abbiano anche dei risvolti positivi. Tuttavia, non si può negare che la pressione esercitata sugli adolescenti in Giappone al giorno d’oggi sia eccessiva. Il fenomeno degli hikikOMORI, benché sia presente in tutto il mondo, è nato nel paese del sol levante e lì si è sviluppato maggiormente per un motivo. In verità, i motivi sembrano essere essenzialmente tre: la competitività sociale (di cui ho scritto sopra), la struttura della famiglia giapponese tradizionale (quasi sempre costituita dall’assenza del padre e da una dipendenza del figlio dalla madre) e una spiccata dicotomia culturale fra i sentimenti che è bene ostentare in pubblico (tatemae) e quelli che si possono mostrare in privato (hon'ne). Per approfondimenti rimando ad altri materiali scritti da persone ben più esperte di me su queste tematiche e ai link in bibliografia.
Ogni personaggio principale di OMORI ha un problema esistenziale da risolvere.
Il protagonista, come suggerisce il nome, rappresenta la personalità schizoide. Questo tipo di personalità si caratterizza per isolamento sociale, mancanza di relazioni interpersonali e ridotta capacità di espressione delle emozioni. È inoltre presente la tendenza a trascorrere il tempo da soli, immersi nella contemplazione del proprio mondo interiore. La sua emozione fondamentale è la tristezza, nella sua funzione più sana, quella che conduce all’introspezione e alla riflessione, e in quella più patologica, la deriva depressiva e tutto ciò che ne consegue (autolesionismo, isolamento, pensieri suicidari, anedonia). Il suo dilemma esistenziale riguarda la scelta fra il darsi la possibilità di aprirsi e accettare il rischio di soffrire implicito nella relazione con gli altri, oppure di chiudersi in sé stesso e rifugiarsi nel proprio mondo fittizio, fatto di ricordi e immaginazione.

Controintuitivamente, il vero nome di Omori è Sunny, che significa “Solare”. Mi sono chiesta a lungo il perchè gli sviluppatori lo avessero chiamato così. Inizialmente pensavo che fosse stato fatto per sottolineare la dissonanza fra il mondo interiore e quello esteriore del protagonista, ponendo l’accento sul fatto che quello interiore fosse quello vero e autentico. Poi però, andando avanti, mi sono resa conto che in realtà l’emozione della tristezza, così come quella della gioia, della rabbia o della paura non vengono mai considerate nel gioco come caratteristiche strutturali della persona. Le emozioni sono temporanee. Sono, per l’appunto, stati e i personaggi li devono sperimentare tutti per crescere, aumentare di livello e progredire nella storia. Alla luce di questo, vorrei simbolicamente interpretare la sintesi “dissonante” fra i due nomi come l’esito di una visione più più integrata e bilanciata del sé del protagonista.
Un altro esempio di dramma esistenziale all’interno del gioco è quello del personaggio di Aubrey. Aubrey rappresenta la desensibilizzazione che spesso segue un evento traumatico. Deve scegliere se darsi ancora la possibilità di sentire le proprie emozioni e tornare ad fidarsi del mondo. La sua emozione principale è la rabbia, un tipo di rabbia che si esprime tramite freddezza, violenza e scontrosità, opposta al temperamento esplosivo di Kel, con il quale litiga sempre. Quest’ultimo è il personaggio più bambino di tutti e in effetti rappresenta la gioia, la voglia di giocare e la spontaneità, ma anche l’altruismo. È lui che più degli altri riporta Sunny nella dimensione del reale, aiutandolo a liberarsi dei suoi demoni interiori. Proprio a causa della sua natura spontanea, di un’innocenza ancora poco contaminata, Kel rappresenta il tramite, il Virgilio di Omori in una catabasi al contrario, quella all’interno del mondo dei vivi.
Fra i principali c'è anche il personaggio di Hero, fratello di Kel, il quale, come suggerisce il nome, è del tutto investito da un misto fra la sindrome del bravo ragazzo e il complesso dell’eroe. Hero è il più grande, il fratello maggiore del gruppo ed è, senza dubbio, quello più maturo. La sindrome del bravo ragazzo che intendo qui non è quella che troverete su “Come liberarti della sindrome del bravo ragazzo e conquistare tutte le donne che vuoi”, ma riguarda la mentalità giapponese responsabile e responsabilizzante che descrivevo prima. Hero è il vero eroe, colui che tutti amano. È perfetto: è affascinante, di bell’aspetto, carismatico ed è il migliore ad appianare i conflitti all’interno del gruppo e a convincere gli altri a fare quello che vuole lui. La sua passione per i lavori domestici lo rende l’impiegato ideale. In realtà, anche lui vive un conflitto fondamentale. La sua apparenza così calma e composta è solo la facciata (la doppia facciata pubblica-privata). Avendo un carattere così malleabile, Hero fatica a rifiutare le richieste altrui. Il conflitto fondamentale di Hero è quello fra il pensare con la propria testa seguendo i suoi più veri desideri e il lasciarsi condurre e guidare dagli altri perseguendo un falso Sé.
Esistono altri due personaggi importanti fra i principali, ma nel gioco li incontrerete successivamente rispetto a questi quattro, quindi non li descriverò. Apprezzate la mia buona volontà di non spoilerare. Lo stesso vale per i luoghi.

I luoghi in OMORI sono splendidi, ma una qualsiasi descrizione di questi non sarebbe per voi molto utile e vi toglierebbe la metà del divertimento. Mi limiterò a dire che in questo gioco ritroverete in bella mostra Es, Io, Super-Io e mondo reale, anche se chiamati con dei nomi diversi. Per chi non fosse familiare con le tre istanze psichiche originariamente teorizzate da Freud (con il mondo reale spero siate familiari tutti), di seguito vi riporto un breve prospetto riformulato in chiave moderna e semplificata. L’Es è il serbatoio dell’energia vitale, l’insieme caotico e turbolento delle pulsioni. Secondo Freud, l’Es è la parte oscura dell’animo umano e si trova fuori dal tempo, dallo spazio, dalla logica e aldilà del bene e del male. È del tutto inconscio.
L’Io è governato dal principio di realtà ed è il mediatore fra i bisogni pulsionali (Es) e il bisogno di censura e regole (Super-Io). Il compito dell’Io, di tenere a bada queste due istanze psichiche in conflitto fra loro, non è per niente semplice. Da questa difficoltà derivano le difese dell’Io e le nevrosi, le quali sono tentativi di difendersi da determinati sforzi pulsionali particolarmente impegnativi.
Il Super-Io ha la funzione di dare struttura alla personalità. È l’insieme dei divieti sociali e rappresenta la coscienza morale, il potere condizionante dei genitori, della società e della cultura di appartenenza. Possiamo dire che esso rappresenti un ipotetico Sé ideale a cui tendere. Non è possibile liberarsi del Super-Io, che è interiorizzato a partire dalla più tenera età ed è anch’esso, per la maggior parte, inconscio.

Una caratteristica importante di OMORI è quella di dare importanza a tutte le emozioni, anche quelle apparentemente negative come la tristezza e la rabbia. Tutte le emozioni servono ed è possibile esperirle in gradi diversi, da quelli più intensi a quelli più neutrali; inoltre, i loro effetti si bilanciano fra loro, proprio come i classici “tipi” in Pokémon: la Felicità batte la Rabbia, la Rabbia batte la Tristezza e la Tristezza batte la Felicità. I vari tipi di emozioni modificano anche le statistiche: la Rabbia aumenta l’Attacco, ma abbassa la Difesa; la Tristezza aumenta la Difesa, ma riduce la Velocità; la Felicità aumenta la Velocità, ma riduce la Precisione.

OMORI è anche horror. Regala dei jumpscare genuini e le musiche sono sempre azzeccate e inquietanti al punto giusto. Devo dire che ho letto recensioni che danno molto spazio a questa dimensione. Per me è stato più significativo il modo in cui il gioco ti porta a comprendere come i mostri sotto al letto sono solo il riflesso di altre paure legate alla crescita. OMORI ci mostra che i veri mostri dell’infanzia sono quelli dell’adultità. Questo gioco ci racconta che crescere fa sempre paura, perchè non si può crescere senza sofferenza e senza lasciarsi dietro qualcosa.
I mostri vengono definiti “Something”, letteralmente un “Qualcosa” di indefinito. Secondo la mia interpretazione, quel “Something” è l’ansia. Quel senso di pesantezza che ti assale la sera? Something. Un improvvisa angoscia verso il futuro? Something. Senso di nausea alla mattina? Something. Attacco di panico? Something. In particolare quando si è adolescenti, la vita è fatta di sensazioni disordinate che non si sa come chiamare, ma che provocano uno stato di malessere notevole. A volte queste sensazioni si accumulano e possono diventare incontrollabili e fare molta paura.
OMORI ha il sapore acre della nostalgia. Non amaro, ma neanche dolce. È un sapore che rimane, che gratta in gola, che irrita lo stomaco. E crea dipendenza. L’intreccio fra trama e azione è perfetto e non annoia mai.
Oltre all’inevitabile coinvolgimento emotivo e all’effetto-nostalgia è davvero un’esperienza capace di insegnarvi qualcosa su voi stessi. Se gli date una possibilità non vi lascerà indifferenti. Sono sicura che andrete a ripescare fra i vostri ricordi di infanzia a cercare tracce della persona che siete diventati oggi e troverete tanti, tanti insight.
Nel caso in cui decidiate di farlo, vi consiglio di lasciar perdere i post del 2009.
Bibliografia
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