Sono tornata da poco dalla Biennale Arte 2022, “Il latte dei sogni”. L’arte contemporanea è una delle mie passioni. Certamente è profonda, fa riflettere, a volte è semplicemente bella da vedere; ma soprattutto è divertente. L’artistoide annoiato che va alle mostre solo per poter dire di esserci stato lo troviamo più facilmente in coda davanti agli uffizi di Firenze. Questa categoria, nella quale, ahimè, mi sono trovata anche io qualche volta, si fa due ore di fila perché “La Venere di Botticelli è da vedere” e spesso lo fa senza sapere nulla del quadro, della tecnica pittorica utilizzata o dell’artista. Annoiarsi con l’arte contemporanea, invece, è molto difficile, perché in generale lei non pretende nulla da te: non le interessa che tu conosca l’autore, l’opera, l’allegoria e di solito non si vanta per la sua bellezza o difficoltà di esecuzione. Vuole solo colpirti.
Il divertimento sta proprio in questo. Entrare in una mostra di arte contemporanea è come entrare in una zona di guerra, in cui psicologicamente sei sempre sotto tiro. È la quintessenza dell’esperienza, eroina pura per una Gestaltista come me. È un pò la sensazione che si ha da bambino quando si entra nella casa degli orrori: se sei (s)fortunato svoltando l’angolo può esserci qualcosa pronto a scioccarti, sia con un’emozione negativa, che, anche se più raramente, con una positiva. Personalmente ho molto rispetto degli artisti che riescono ad utilizzare anche quest’ultima modalità; è più difficile, perché le emozioni negative hanno più presa sull’essere umano e una maggior portata storica, dal momento che spesso sono la conseguenza di problemi sociali e permettono quindi di originare riflessioni più ampie, il cui punto di partenza è sempre e comunque che è la società ad essere malata e non l’individuo (questo è un altro dei motivi per cui amo l’arte contemporanea: è anarchica).
Ho ancora più ammirazione nei confronti degli artisti che riescono a far confluire emozioni positive e negative in una sola opera: tanti vi ambiscono, ma in pochi ci riescono. In questi rari casi ho l’impressione di trovarmi davvero di fronte a qualcosa di grande, qualcosa che esiste davvero in quanto sé stesso e non in quanto prodotto. È qualcosa che va oltre l’intellettualizzazione, ai pensieri e che si esprime semplicemente nell’esserci, nell’essere esperito da qualcuno. In parole povere, mi trovo davanti a una Gestalt; qualcosa che è più della somma delle singole parti e che per sua natura si avvicina all’esperienza della vita umana, che non è mai positiva o negativa in toto.
Quest’anno ho provato questa sensazione all’interno del padiglione Italia. E l’ho provata, in maniera diversa, anche di fronte al titolo di oggi.
Kind Words, letteralmente “Parole Gentili”, è un’opera d’arte contemporanea. Questo apre un dibattito enorme sulla natura dei videogiochi e su come molti di questi non possano davvero essere definiti tali, almeno secondo la visione comune. Quello che si pensa normalmente dei videogames è che non insegnano nulla; essi servono a distrarre, sono sempre divertenti e mai tristi, non hanno una dimensione sociale e che quando ce l’hanno è pericolosa.
Non mi soffermo su tutti gli altri luoghi comuni. Per il lettore sarà già evidente quello che volevo comunicare: non è sempre così. E Kind Words, in particolare, sovverte completamente questi pregiudizi. Sviluppato da Popcannibal, è stato nominato ai Game Awards per Best Game for Impact e nel 2020 ha vinto i 16th British Academy Awards, nella categoria “Game Beyond Entertainment”.
L’espressione che meglio riassume l’atmosfera di Kind Words è “luogo sicuro”. Lo scopo di questo gioco è creare un atmosfera il più safe possibile, in cui l’utente possa sentirsi protetto e psicologicamente contenuto.
Siamo nella nostra cameretta, avvolta dalla luce mielosa e aranciata di una specie di tramonto. Dal nostro stereo proviene una musica rilassante, lo-fi, che sembra uscita da una di quelle playlist che ad oggi spopolano su you-tube (il compositore è Clark Aboud, già conosciuto per aver composto la colonna sonora di Slay the Spire). Siamo soli. A farci “compagnia” c’è solo un grazioso cerbiatto-postino, che sarà il mediatore di tutte le nostre azioni.
Possiamo solo scrivere lettere, leggerle e rispondere.
Lo scopo del gioco non è fare nuove amicizie o conoscere nuovi amici, ma creare connessioni attraverso messaggi scambiati nel più completo anonimato. Possiamo rispondere alle lettere degli altri, oppure possiamo decidere di scriverne una di nostro pugno; in entrambi i casi abbiamo solo 1600 caratteri per fare la differenza.
Naturalmente, come dice il cerbiatto-postino, c’è sempre il rischio che qualche idiota offenda o dia cattivi suggerimenti; il gioco ci invita a segnalarli tempestivamente.
A trasudare dalle lettere è sopratutto la sofferenza psichica: c’è chi ha il cuore spezzato, chi pensa al suicidio, chi si sente soffocato da genitori troppo restrittivi, chi è in preda all’ansia o alla depressione, chi ha un familiare affetto da una malattia inguaribile, chi si è trasferito in una nuova città e si sente solo e anche chi, semplicemente, soffre ma non sa bene perché.
In pratica è come una posta del cuore a cielo aperto, alla quale tutti possono rispondere e inviare i propri pensieri. Il rischio di trasformarsi nei parrucchieri-un-pò-psicologi c’è, ma lo stemperano il coinvolgimento dato dalla consapevolezza di poter fare la differenza nella giornata di qualcuno, il poco spazio a disposizione (1600 caratteri) e, sopratutto, il fatto che non si verrà in nessun modo riconosciuti per questo: l’ego non fa parte del gioco. Se la persona ha apprezzato la nostra lettera, l’unica cosa che può fare è inviarci un francobollo; in questo modo, più persone raggiungeremo e più francobolli collezioneremo.
Per me all’inizio è stato più facile aiutare. Penso che la posizione del terapeuta sia sempre più facile rispetto a quella del paziente, perché ci pone in una condizione di vantaggio psichico: ci si sente meglio ad essere colui che aiuta piuttosto che colui che soffre.
Ma a forza di rispondere alle lettere degli altri arriva il momento in cui fare il terapeuta non mi è più bastato e ho iniziato a condividere le mie sofferenze.
Sono sicura che questa modalità dica molto di me come persona e che per qualcun altro possa essere diversa; ma secondo me la cosa importante è osservare come in una relazione di aiuto (qui ne scrivo non in senso professionale, ma proprio in quanto relazione) nessuna delle due parti rimane immutata: c’è sempre il bisogno, prima o poi, di passare dall’altro lato. Solo in casi patologici si rimane in un solo ruolo per tutta la vita. Uno degli scopi della terapia, forse l’unico scopo, è quello di farci spostare dal nostro centro, di mostrarci che un altro modo di essere è possibile. Questo vale per entrambi, sia per il terapeuta che per il paziente. Credo fermamente che imparando ad aiutare gli altri, impariamo ad aiutare noi stessi; e che solo attraverso questo continuo movimento la terapia respira e vive, continuando a vivere anche quando gli incontri in studio finiscono.
Naturalmente nessun gioco potrà mai sostituire la vitalità della terapia. Kind Words si tratta di un debole palliativo, neanche ben riuscito; ma è il suo messaggio ad essere importante. L’esistenza stessa di Kind Words ci colpisce, positivamente e negativamente, ed è per questo che si tratta di un’opera d’arte delle migliori.
Kind Words è un mercato di cambiamenti, un giornale online in cui invece che notizie sulla guerra, sulle catastrofi ambientali e sulla pandemia, possiamo leggere trafiletti sulla vita delle persone alle quali, a differenza dei mostri storici qui sopra, possiamo rispondere.
A proposito di mostri storici, impossibile non pensare alla pandemia, nei confronti della quale Kind Words si è dimostrato profetico (il gioco è del 2019). L’immagine di noi soli nella nostra cameretta intenti a scrivere lettere al mondo, circondati da areoplanini che passano ogni tanto, su cui sono scritti messaggi di speranza e brevi citazioni, fa pensare ad un tentativo di mostrare l’alternativa di ciò che potrebbe essere internet e in particolare la sua parte più tossica, i social network, se non fossimo tutti così concentrati sul nostro ego, sulla nostra immagine, sulla nostra identità. A differenza dei social, Kind Words attinge ad una dimensione veramente collettiva in cui l’altro è qualcuno da supportare, da spronare e da proteggere, indipendentemente dalla immagine, età, sesso, idee politiche. Levandoci tutto tranne le nostre fragilità, Kind Words ci mostra che è solo attraverso queste che possiamo incontrare l’Altro in quanto essere umano.
In un mondo digitale in cui si fa a gara per deridere, memare, scioccare, oggettificare e sminuire il prossimo è confortante pensare che esista un luogo in cui sia davvero possibile dare voce al bisogno di un empatia senza condizioni; un posto in cui vige il meccanismo paradossale per cui la distanza dell’anonimato ci avvicina al calore della gentilezza.
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